a cura di Mariella Dell'Aquila e Rosaria Palomba
L’esperienza del luogo
di Pasquale Palmieri
"Murphy, la vita è solo figura e sfondo".
"Nient'altro che uno smarrirsi sulla strada di casa" aveva replicato Murphy.
(Samuel Beckett, Murphy)
Non è semplice affrontare il ruolo della Fotografia nel suo momento più globale ed atomizzato, in cui la possibilità di registrare e fruire immagini ha raggiunto livelli quantitativi di cui è oramai è difficile immaginare il superamento.
L’era del digitale rischia di collocare la Fotografia ai margini del mondo della rappresentazione e della comunicazione, ma soprattutto al di fuori del mondo dei saperi e delle conoscenze, rischio indotto sia dagli eccessi visivi quanto dalla standardizzazione dell’estro, fenomeno che può generare la desensibilizzazione all’immagine e l’anestesia della visione.
Mi è più agevole indugiare su scenari meno futuri ma più familiari, e cioè sul carattere etico della Fotografia, quel "Nient'altro che uno smarrirsi sulla strada di casa" che riassume la concezione della vita per il personaggio beckettiano.
Trovo infatti che lo smarrimento sia un presupposto importante nell’uso della Fotografia come rappresentazione e controllo dello spazio: dare per scontato il senso delle città o del paesaggio ne preclude la conoscenza, impedisce che si attivi la carica emotiva necessaria a riconoscere l’identità dei luoghi.
La Fotografia è quindi opera e progetto: è un artificio, che pur rappresentando la realtà trascende da essa. Per questo è affine all’architettura: la precede, come una ricerca personale di verità, prefigurando storie immaginarie, destini di uomini e di luoghi a cui l’architetto dà forma.
Nella Fotografia c’è sempre qualcosa che prosegue oltre il margine. Ed è lì che si prefigura un destino. Ed in questo è più onirica del cinema, dove invece c’è l’attesa che la macchina sveli ciò che vive oltre i margini. Restituisce la dimensione del tempo per sottrazione, isolando un istante da ciò che lo precede e da ciò che accadrà, generando una sospensione creativa della temporalità.
La consapevolezza che esiste qualcosa oltre l’inquadratura attribuisce una dimensione surreale all’immagine, genera un istinto di “completamento”, istinto che nell’architetto diventa progetto, disegno di prospettive.
“La scelta dell’inquadratura è un lavoro profondo
sul sistema di rappresentazione, sulla scoperta di
una realtà che è presente all’interno della realtà.”
(Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, Quodlibet)
Lo scatto di una foto è testimonianza di una realtà all’interno della realtà atemporale e quindi, con un gioco di parole, la testimonianza di un’a-realtà già vissuta o forse da vivere ancora. È in questo profondo spazio concettuale che l’architetto di immagini edifica turbamenti, in cui ciò che è visibile valorizza ciò che è assente.
In questa ricerca visiva non mi sono mai, personalmente, sentito attratto dai luoghi eccezionali o dalle avventure. Tutto ciò che fa parte dell’esistente può avere interesse. Anche i luoghi percorsi ogni giorno. Se non si guarda il quotidiano con l’occhio del disprezzo ogni cosa cambia, disorienta e stupisce. La Fotografia può restituire dignità a qualsiasi oggetto, a qualsiasi luogo e ad ogni suo abitante, presente o assente. L’importante è generare un rapporto osmotico ed una contaminazione con la realtà, in cui il fotografo, in funzione della propria conoscenza dell’arte e dell’estetica, e con l’uso della luce, delle ombre, della prospettiva e della profondità, con l’eliminazione o l’aggiunta di un elemento, genera una rappresentazione.
La ricerca del senso di un luogo attraverso la Fotografia è quindi lo svelamento dello straordinario nell’ordinario. È un nuovo modo di guardare, è la scoperta del piacere del silenzio, al di fuori dell’ossessiva ricerca di simboli e di rigori autoreferenziali. Nella fuga dallo stupore per ciò che è insolito o spettacolare il fotografo si smarrisce, inseguendo quelle promesse e quegli orizzonti che solo lo smarrimento gli offre. È un modo di guardare le cose come se dovesse sempre succedere qualcosa. È una perenne attesa.
Questa ricerca di senso è un’azione che il cacciatore di immagini compie talvolta come pura esperienza personale, altre volte come supporto e premessa di esperienze successive, come la trasformazione di quello spazio da parte dell’architetto oppure il suo utilizzo come set cinematografico. In questo caso la rivelazione della bellezza diventa una disciplina lenta, meditata, in cui dello spazio si assecondano le proporzioni, le simmetrie, i vuoti. Quando il fotografo indaga uno spazio per queste finalità la sua visione è sempre ottimista, di affezione al luogo, anche se appare inquietante e degradato, anche quando il tempo e l’incuria, come il vento, ha trasformato il volto delle città e dei paesaggi.
Questa affezione al luogo è un atto di generosità, di condivisione. Nell’epoca in cui il mondo non propone più l’uso dello spazio, ma solo l’abuso, la Fotografia dell’architettura e del paesaggio dimostra che ogni luogo ha una sacralità, è degno di attenzione e non di disprezzo. In ebraico Hamakom, luogo, è uno dei tanti nomi di Dio, e quindi la sua raffigurazione è sempre un gesto d’amore, è il tentativo di rappresentare l’irrappresentabile.