Labile
Senza conoscenza
Chi fotografa è incapace di trattenere il vissuto. È atterrito dai momenti di gioia, dai volti delle persone amate che evaporano. Si dispera di fronte al vuoto che lascia il tempo che passa. È consapevole che i suoi ricordi si raffreddano, si arrugginiscono, poi si deformano e si allontanano.
Si illude di poter catturare il fremito della vita in un foglio di carta sensibile. E già la parola “sensibile”lo rassicura, come se la stessa carta non fosse pur materia ma essenza generosa e amica.
Queste fotografie nascono da una disillusione. Il passato è perduto già quando l'otturatore si è richiuso, deformato dalla frazione di tempo che si è interposto. Vana è la speranza di ritrovare ciò che era solido. E così ho disattivato tutti gli automatismi della mia fotocamera che il diligente costruttore aveva congegnato per dipingere la verosimiglianza. Ho messo a fuoco l'opposto del mio soggetto, ho aperto più del necessario il diaframma per ubriacarlo di luce e i volti mi sono apparsi nel mirino già come li avrebbe ricordati la mia memoria un centoventicinquesimo di secondo più tardi. Mi sembrava così di lottare con quella mannaia che tenta di recide la realtà dal suo ricordo: avevo sconfitto la “comparazione”fra le persone e le loro sembianze. Avevo smesso di essere il carceriere del tempo, serrato in una finzione voluta dall'occhio razionale.
Citando così il mio regista preferito, Andrej Tarkovskij, il tempo e la sua memoria si sono fusi l'uno nell'altra, come due facce di una stessa medaglia.