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“….e il treno partì verso occidente”, assicura Jack London durante il suo vagabondaggio, splendidamente descritto ne “La strada”. Il treno ha ispirato tanta letteratura e una infinità di visioni. London, in questo senso, è in ottima compagnia, con Dickens, Tolstoj, Zola, Proust, Verne, Monet e tanti ancora.
Neanche io, anche se molto più modestamente, sono riuscito a sottrarmi al fascino di raccontare croci e delizie di un piccolo treno diretto verso occidente, la “vallecaudina”, che traghetta i sanniti nell’ovest della vicina ma lontana metropoli partenopea.
In questi tempi di aspre polemiche sul precario filo di ferro che lega Benevento a Napoli (poche corse e molto lente, vagoni al di sotto del limite della decenza, assenza di treni nei giorni di festa ecc.) ho preferito schivare i difetti e indugiare sulle opportunità che un mezzo pur anacronistico e inefficiente come questo riesce a offrire.
La meta è vicina e nota, e questo treno non garantisce distacco, fuga, non genera il rinnovamento interiore di un viaggio lungo. Su questo binario, solitario e triste (per citare un più popolare Claudio Villa), i passeggeri non sono quasi mai occasionali. Affrontano il loro percorso senza curiosità e con rassegnazione. Quasi mai guardano fuori dal finestrino: non trovano paesaggi esotici da scoprire. I luoghi sono noti, consueti. Di tanto in tanto una sbirciatina fuori, ma solo per capire che tempo farà a destinazione, o se il treno è troppo in ritardo.
Io ho frequentato molto questo treno negli anni universitari. Prendevo il treno da quella che era nota come la “stazione di cartone” al mattino presto, viaggiando spesso in piedi, muovendomi goffamente fra studenti assonnati con enormi cartelle e grossi disegni in lunghi tubi di cartone.
Già a quel tempo fotografavo, con una elegantissima Nikon tutta meccanica che mi era costata lacrime e sangue, ma che non riuscivo ad usare lungo questo viaggio, che affrontavo sempre con troppo nervosismo e contrarietà.
Arriva poi il tempo in cui interviene una esigenza di mappatura e di archiviazione del passato, mossa dal bisogno di definire la propria identità e, come in una analessi, il ricordo si bilancia con l’oblio. Ho quindi avuto bisogno di anni perché il rifiuto di quei viaggi si tramutasse in seduzione, nostalgia e bellezza, e mi riappacificassi con quei vagoni, che per la fortuna dello spirito ma per il tormento del fisico, ho ritrovato identici a quelli che mi traghettavano verso la scuola di architettura.
Credo che sia stato questo percorso a spingermi a fotografare, anni dopo, questo treno, a riguardare con nuovi occhi quei luoghi dai finestrini appannati, scoprendo che i paesaggi visti dal treno mutano con maggior lentezza di quelli attraversati dalle strade asfaltate, dove l’illusione del benessere infligge ferite gravissime e consuma il territorio in maniera insanabile.
Così, attraverso quei finestrini, la fotografia collaborava con la mia memoria e, in un tentativo di riconciliazione col passato, le immagini che si presentavano al mio sguardo sfuggivano senza riuscire a bloccarsi in una forma definita.
Pasquale Palmieri


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